
Liberarsi dalle costrizioni psicologiche verso una perfezione inesistente come atto d’amore verso i propri figli.
Siamo donne. Ci sentiamo inadeguate, è normale. Non siamo mai sufficientemente belle, brave, efficienti, adatte … è normale.
Non ci percepiamo mai all’altezza come madri, come mogli, spesso anche come figlie o come amiche. Tutto normale. Non possiamo permetterci di apparire deboli o meno capaci sul lavoro, così come in famiglia; non dobbiamo mai lasciar trasparire quel senso di impotenza. E’ tutto, assolutamente normale … o forse no. Le pressioni sociali ci pesano addosso come macigni e, la maggior parte delle volte, siamo noi stesse a creare quei macigni e a caricarceli sulla schiena; perché “è normale” … è così che una donna è e deve essere. Ce ne convinciamo da sempre, ci ripetiamo di non dover cedere, di non dover mostrare le nostre debolezze, di dover sempre rispettare certi standard inumani imposti da chissà chi. Intanto viviamo nell’angoscia di doverci trovare ogni giorno a confrontarci con sfide che non sapremo affrontare, con problemi più grandi di noi. Alla fine ci ritroviamo, senza rendercene conto, a nascondere la nostra polvere sotto il tappeto, per far pensare ad altre (esattamente come noi) che noi possiamo, che noi riusciamo, perpetrando attraverso di loro il costante confronto, l’invidia, il senso di inadeguatezza e la rivalità tipiche del genere femminile.Siamo pentole a pressione farcite di ansia e dubbi, ci sentiamo sole e incomprese, ma al contempo abbiamo timore ad esporci agli altri così come siamo, per paura del giudizio insensibile e marziale che noi per prime siamo addestrate a dare alle altre. Non ci fidiamo di nessuno. Anche le amiche migliori sono più fortunate, meglio vestite e più talentuose di noi, ma non possiamo permetterci di lasciar trasparire questo senso di inadeguatezza. Noi siamo donne e dobbiamo essere all’altezza, perché è normale.
Il riflesso nello specchio ci critica, ci sminuisce, ci abbatte. Il riflesso nello specchio ha la voce delle nostre madri e nonne, che fin da piccole ci ripetevano mantra odiosi di cui non siamo in grado di disfarci: “Chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire” ne è solo un piccolo esempio. Pressioni interne che si scontrano con un clima sociale infuocato e una cultura di massa spietata, in cui non abbiamo la bussola per orientarci. Gli standard culturali moderni ci vogliono brave in tutto, ma non quanto il partner; sempre giovani però assolutamente responsabili e belle, ma non troppo provocanti; carine, ma non troppo rigide; promiscue, ma vergini. Dobbiamo desiderare la carriera, ma anche di accudire una famiglia. Dobbiamo essere sempre allenate e ben vestite, ma anche avere una casa ordinata e immacolata. Dobbiamo volere dei figli, ma anche curare la nostra indipendenza. Dobbiamo discostarci dalla banalità del modello femminista ed indipendente delle nostre madri, ma anche rifiutare quello sottomesso e tradizionalista delle nostre nonne … e continuiamo a giustificare il tutto dicendoci che “siamo donne, è normale”.
Allora che donne siamo, se non assomigliamo, né alle donne di trent’anni fa, né a quelle di sessant’anni fa? Siamo diventate il genere dell’insicurezza non confessata e della competizione senza pietà. Complici anche (ma non solo) i social network, abbiamo maturato il potere di materializzare preoccupazioni inesistenti, trasformandole in paranoie immobilizzanti e costrittive o scatenanti guerre serrate e senza esclusione di colpi di donne contro altre donne. Dipendiamo dai commenti degli altri, che captiamo e studiamo come fossero reperti di valore inestimabile; anche se provengono da sconosciuti o quasi. Li archiviamo e analizziamo, rimuginandoci sopra per ore, con la mente li leghiamo a filo doppio a situazioni, frammenti, ricordi, costruendo un patchwork di episodi della nostra vita in cui siamo state deludenti, imbarazzanti, ridicole. Teniamo il tutto lì e ci avvolgiamo in questa coperta di vulnerabilità ed insicurezza, affrontando il mondo e la vita così.
Tutto questo non è normale. Questo circolo vizioso che si passa di donna in donna (e, ahimè, sempre più spesso di madre in figlia) va spezzato e farlo costa fatica e coraggio. Dobbiamo cominciare a dire a noi stesse e, soprattutto, a dire alle altre donne, che il successo non significa l’adeguamento a modelli di perfezione schizofrenici ed impossibili, né tanto meno a modelli possibili. Quando parliamo di successo, felicità e realizzazione veri, non parliamo di adeguamento ad alcun modello, bensì della libertà di essere autentici. Di migliorare noi stesse, sì, ma nell’ottica di una genuinità ed originalità umane, accessibili ed eticamente sostenibili. Questo senso di inadeguatezza va assolutamente respinto, specialmente se siamo madri. Rifiutare i sensi di colpa e le paranoie indotte, come genitori, significa smontare i luoghi comuni che ci vorrebbero cattive madri se scegliamo A, piuttosto di B. Attivarci contro il nostro stesso senso di inadeguatezza vuol dire compiere un atto di responsabilità e amore nei confronti dei nostri figli e, soprattutto, figlie. Pensiamo solo al subdolo talento che l’industria consumistica ha nel giocare con i nostri sensi di colpa genitoriali, spingendoci all’acquisto come mezzo per riempire i vuoti lasciati dalle nostre assenze presunte o reali.Lo psicoanalista Donald Winnicott, afferma che non esistano madri ideali, ma solo madri “sufficientemente buone”, cioè donne spontanee, autentiche e vere che, con tutte le loro ansie e preoccupazioni, stanchezze, sensi di colpa emergono come figure in grado di trasmettere sicurezza e amore. Questa definizione di madre dovrebbe, a mio parere, essere insegnata a scuola. Sì, perché ci offre una meravigliosa occasione di ridimensionare la nostra idea di donna e di madre, distorta dalle insicurezze e dagli standard inevitabilmente disattesi, ma allo stesso tempo ci indica la giusta direzione. Le parole di Winnicott possono diventare illuminazione, conforto ed invito a liberarsi dall’opprimente e costante senso di colpa per non essere “perfette”.
Se riusciremo ad accettare che ognuna di noi è diversa e unica, che ha una storia di femminilità e di genitorialità diversa da ogni altra e non confrontabile con nessuna, che non è possibile giudicare le altre donne e le altre madri in base a parametri arbitrari o esclusivamente personali, che non possono applicarsi universalmente a tutti, allora forse potremo avere un minuscolo gradino da cui partire per fare la differenza. Differenza in termini di qualità di vita di altre donne, di altre lavoratrici, di altre madri, quindi differenza qualitativa per la vita delle loro famiglie, dei loro figli, dei loro universi lavorativi, familiari e di altro genere. Una delle grandi carenze odierne, riguardola nostra felicità, è anche l’incapacità di condividere la nostra vita in maniera autentica con agli altri. Se un tempo intorno a una mamma esisteva il sostegno, presente e pieno di calore, di uno stuolo di nonni, zie e vicini, oggi tendiamo a vivere quasi esclusivamente la coppia. Eppure creare una rete più ampia non è solo di aiuto al singolo genitore, ma può diventare una conseguenza positiva per i figli. Condividere sembrerebbe essere la parola della nostra epoca, portata in voga dal web, ma siamo certi di utilizzare il gesto della condivisione tramite la rete telematica, nel vero senso di una condivisione profondamente autentica ed in grado di migliorarci come esseri umani, come donne e come genitori?I social network non sono il demonio, sono solamente uno strumento, un oggetto. Gli oggetti sono funzionali e diventano buoni o cattivi in base a come vengono utilizzati. In virtù di questo motivo, non possiamo addossare al web ogni colpa delle tragedie umane odierne, così come non possiamo attribuirgli ogni merito. Ciò che resta da fare è prendere coraggio e fare la cosa che fin dai tempi delle caverne è una tra le più difficili per l’umanità: fare la differenza nel nostro piccolo, con fatica e sacrificio, senza arrenderci e restando sempre positivi e aperti al prossimo.
Elena Frugoni
Educatrice Viridiana